Il faldone che nessun parlamentare leggerà mai è accompagnato da una letterina del ministro degli Esteri al presidente del Senato. Luigi Di Maio scrive ad Elisabetta Casellati che il «Documento triennale di programmazione e di indirizzo della politica di cooperazione allo sviluppo» attende il parere delle commissioni competenti, come previsto dalla legge. Nelle 788 pagine che seguono c’è la fotografia di ciò che lo Stato italiano spende per i Paesi più arretrati, scattata e descritta dal governo stesso.
Una narrazione di parte, quindi, nella quale ogni progetto finanziato promette di costruire un mondo più giusto ed ecocompatibile. Quando però devono misurare «l’efficacia» di questi sforzi, anche i dirigenti della Farnesina che hanno redatto il volume sono costretti ad alzare le mani: «Per monitorare i progressi», ammettono, «occorre migliorare la disponibilità e la qualità dei dati». Significa che dove vadano a finire quei quattrini, e se davvero servano a raggiungere gli obiettivi fissati, non lo sanno nemmeno loro. Una rendicontazione seria, quella che gli addetti ai lavori chiamano «valutazione d’impatto», non c’è.
GRANDI SPESEEppure le cifre in ballo sono grosse. Il budget della cooperazione ammontava a 5,2 miliardi di euro nel 2017. Scese a 4,4 miliardi l’anno seguente, ma solo a causa dell’«effetto Salvini»: in quella somma entravano anche le spese destinate all’accoglienza temporanea dei rifugiati e dei richiedenti asilo, diminuite di 650 milioni dopo il giro di vite agli sbarchi imposto dall’allora ministro dell’Interno. Gli stanziamenti sono poi tornati a crescere, superando nel 2019 la soglia di 5 miliardi. Ora Di Maio e gli altri prevedono di spendere per la cooperazione 4,4 miliardi nell’anno in corso e 4,5 miliardi nel 2021.
Soldi che in gran parte vengono da tre ministeri: Economia, Interno e Affari Esteri. Cifre importanti prima dell’epidemia e a maggior ragione adesso, con l’Inps che non riesce a pagare la cassa integrazione a tutti coloro che ne hanno diritto e il governo italiano costretto a ricorrere ai prestiti garantiti dall’Unione europea e ad accettare, comunque vada, di rendere conto a Bruxelles delle scelte di spesa pubblica che farà da adesso in poi. I rivoli attraverso cui i soldi dell’aiuto italiano allo sviluppo si perdono per il globo sono moltissimi e di forme diverse, e pure questo complica il controllo. C’è la cooperazione multilaterale, che passa attraverso gli uffici dell’Onu e delle sue agenzie: istituzioni alle quali i finanziamenti incassati servono soprattutto per mantenere se stesse. Ci sono le banche e i fondi multilaterali, come la Banca africana di sviluppo, la Banca Mondiale e il Fondo Verde per il clima, ai quali il nostro ministero dell’Economia partecipa sottoscrivendo la propria quota di capitale.
C’è la cooperazione europea, che avviene attraverso la Ue, e quindi la cooperazione bilaterale, che l’Italia fa direttamente, attraverso accordi con i singoli Paesi: solo di questi ultimi progetti, in realtà, si riesce a sapere qualcosa. Le risorse italiane finiscono per il 50% in Africa e per il 33% nei Balcani e in Medio Oriente, con il resto sparso negli altri angoli del mondo. Il governo ha scelto di concentrarsi su ventidue «Paesi prioritari», tra i quali figurano la sempre amatissima Cuba (94 milioni di euro erogati in un anno), che secondo il nostro esecutivo sarebbe percorsa da «un nuovo impulso riformista», e l’Afghanistan (117 milioni). Ci sono pure i territori palestinesi (46 milioni), e in questo caso la motivazione è dichiaratamente politica: lo scopo di quegli aiuti, si legge nel documento della Farnesina, è «rafforzare la leadership dell’Autorità nazionale palestinese», la stessa che continua a negare il diritto all’esistenza del popolo israeliano.